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Ogni discorso pittorico che intenda svolgersi oggi attraverso una mediazione linguistica di sapore anche vagamente informale non può presentarsi che come un discorso ad alta percentuale di rischio. Questo perché il lemma "informale", secondo una definizione comunque unilaterale o quanto meno riduttiva, significa appunto, come incisivamente nota anche Dorfles, "contrario ad ogni forma, opposto di ogni volontà formativa, ribellione ad ogni precostituita e razionale strutturazione". E questa quasi non-pittura, contraria a ogni regola, più astratta dello stesso astrattismo, ha ormai già colto, nei passati anni cinquanta e sessanta, il suo zenit, proponendosi come una sorta di metalinguaggio taumaturgico della incomunicabilità di valori attraverso il tramite estetico. Ovvero, per dirla con Argan, l'informale è stato indubbiamente il paradigma della "crisi dell'arte come scienza europea", individualizzando ed esasperando fino ai limiti estremi il crollo di una visione dell'arte che, nonostante gli aggiornamenti formali, dall'impressionismo alle prime avanguardie, era comunque rimasta impregnata di ideali costruttivistici post-rinascimentali. Esorcizzata successivamente la crisi esistenziale della alienazione da incomunicabilità mediante l'adozione e la diffusione sempre più persuasiva di una nuova "realpolitik" di ridimensionamento dell'ambiguo e poco gradito "privato" - la cui autistica impermeabilità veniva mano a mano disciolta entro l'emergente "sociale" - non restava infine che esorcizzarne anche la componente pittorica. Il dissoluto e solipsistico gesto informale, ormai ritenuto inaccettabile nella logica dei nuovi valori, doveva evolversi dunque verso forme strutturalistiche e segniche a metodologia rigorosamente scientifica. Riproporre pertanto, come fa oggi Augusto Piccioni, una pittura che, anche se in nuce, si avvale di un medium linguistico di chiara matrice informale, significa, in un certo senso, riaprire ferite che molti ritenevano rimarginate per sempre. In tal modo Piccioni, operando quasi una rivisitazione cui manca, per ovvie ragioni, l'ambigua etichetta del revival, ne accetta gli impliciti rischi di cui prima s'è detto, riversando nel proprio lavoro tutte le sue incoercibili tensioni e pulsioni interiori. Scevro da ogni preoccupazione di "up te date", il pittore trasporta sulle sue tele un'ansia vitale che. Nel gesto ampio e disteso, libero e liberatorio ad un tempo, si presenta come l'unica risposta possibile all'ingabbiamento formale e ideologico nel quale l'istanza creativa fino ad ora repressa, rischiava quasi una specie di schizofrenia per dissociazione di identità. Ecco quindi la chiave puramente emotiva di questa pittura che evita di proposito le sofisticate alchimie delle nuovissime avanguardie di oggi, a volte soltanto pseudo semantiche, e che intende invece inseguire esclusivamente la propria gioia espressiva. I rossi ed i rosa si stendono pieni, illuminando di caldi riverberi il brulichio di orme e di segni che danzano sulla superficie del quadro. Le interiezioni dei bianchi o, all'opposto, le tracce risolutive dei neri, sono l'emblema immediato di forze ignote che emergono da un magma indistinto già gravido di premonizioni ed allarmi. Tutto, in questi dipinti, può in ogni momento germinare ed esplodere verso imperscrutabili esiti. Le certezze faticosamente raggiunte vengono risolutamente poste in discussione nella convinzione che nulla può darsi per sicuramente scontato se non se ne riprovano a proprio rischio e pericolo le soluzioni che altri hanno magari già archiviato da tempo. Logico quindi che un tentativo del genere rischi fin dall'inizio AI dissenso dei troppi mentori odierni che anche l'avanguardia vogliono incanalata e gestita nell'economia del "sistema". E logico anche come a noi, invece, "l'eversione" di Augusto Piccioni appaia da incoraggiare e promuovere. Luigi Rucci Teramo, febbraio 1979
____________________ Presentazione in catalogo per la mostra presso la Galleria "Labirinto" di Montorio al Vomano - TE (1979) .
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AUGUSTO PICCIONI |
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